La piccola di casa, Matilde, ha due anni e mezzo e poco più. A differenza dei suoi fratelli maggiori non dà cenno di voler essere molto svelta a parlare. Una volta acquisiti i vocaboli di sussistenza “mamma-papà” si è fermata. Coi gesti, i sorrisi e gli strilli è eloquente e raggiunge gli scopi che si prefigge.
Mamma e papà un po’ hanno sviscerato paure e apprensioni varie, che cominciano con “oddio se …”. Lei col passare dei mesi ha sviluppato un’intenzione chiara nella comunicazione, tanto da essere soprannominata – da noi – la figlia onomatopeica. E’ preparatissima su tutti i versi degli animali che riproduce alla perfezione, anche il grugnito del maiale meriterebbe un premio. Poi sono arrivati i versi più umani, quelli per il cibo e l’acqua: gnam gnam, glu glu. Non sarebbe più facile dire “pappa”, cara Mati? Vabbè, tu stai facendo il tuo percorso.
Con l’inizio del nido a settembre (l’anno precedente è stata a casa con me) il suo vocabolario ha subìto un’impennata chiarissima nella direzione dei rapporti e della proprietà. Matilde ha guadagnato due parole fondamentali: ciao e mio. Oltre a quella parola che, evidentemente, è al centro della giornata comunitaria dei piccoli: cacca. Vederli ogni mattina in fila ad accompagnare un compagno che va a fare la pipì è tra le tenerezze di cui non vorrei mai essere privata, quanto a memoria.
Ma torniamo ai fondamentali. “Mio” viene detto con tono perentorio e ciglia aggrottate; “ciao!” in tono entusiasta. Ed è su questa parola che, forse, io devo imparare dalla lentezza espressiva della nostra Matilde.
Sì, perché noi sappiamo un sacco di parole; ma non è poi detto che ci ricordiamo per bene cosa significhino. Soprattutto noi, diventando adulti, tendiamo a usare le parole per spalancare al resto del mondo i nostri pensieri; siamo astratti patologici. Un bambino che impara a parlare esprime spontaneamente ciò che la lingua è davvero: relazione con l’esistente. E non è detto che l’esistente sia solo umano o quantomeno vivente.
Per farla breve, Matilde comincia la giornata dicendo “ciao” al cucchiaino con cui fa colazione, poi lo dice al seggiolino su cui la metto in macchina. Ovviamente lo dice ai compagni e alle maestre. Ogni cosa che entra nel suo campo di azione è un incontro e dunque lei saluta. Ho cambiato dieci minuti fa il copripiumone e ne ho messo uno pieno di fiori … credo sia ancora là a salutarli uno per uno.
Il bello è che il suo saluto alla scarpa inanimata ha dell’entusiasmo tanto quello alla sua amica Victoria all’asilo. Con Victoria c’è più entusiasmo e anche un abbraccio, ma anche la scarpa si merita un sorriso.
Ecco, non ho cognizione della situazione neurolinguistica di mia figlia, ma ho chiaro che sta facendo un percorso in cui pure io devo farmi sua allieva. Essere al mondo è “essere relazione con”; ogni presenza è un incontro che merita un entusiasmo e un rapporto perché c’è … sulla mia strada. E’ commovente che sia scritto nell’istintività infantile questa spinta alla vocazione, cioé a manifestare una voglia di essere insieme alle cose che via via si trovano sul sentiero. Ciao. Vuol dire: io sono qui e anche tu sei qui.
Noi grandi riserviamo il saluto ai viventi, talvolta pure no … guardiamo altrove. Il nostro TU, se c’è, è esclusivamente umano; però il Tu del mondo ci ha mandato incontro mille mila altri suoi messaggeri. E così la nostra testa fa fatto fuori una buona percentuale di incontri quotidiani. Ci manca una voce che esulta, perché abbiamo perso gli occhi che si accorgono. Ma non è tardi, per fortuna.
Forza bimbi non abbiate paura