Fantasmi

Cosa è interessante?

«Sta suscitando scandalo il libro appena uscito» in cui il principe Harry butta in pasto al mondo la sua storia. Ho messo tra virgolette la prima parte della frase, perché è quasi un modo di dire. Quando escono certi libri o certe interviste, si usa esattamente quell’espressione come fosse il “c’era una volta” delle fiabe.

E il succo di tutto, e il grande abbaglio, è la parola scandalo (la cui etimologia greca rimanda al significato di “trappola”). La trappola è ritenere che una storia sia appetibile quando fa scandalo, cioè quando i contorni diventano eccessivi, scabrosi, terribili, superlativi nel senso più becero del termine. L’abbaglio è duplice: 1) sembra che una storia umana sia degna di attenzione quando è attraversata da fatti eccedenti nel clamoroso (l’implicito è velenoso che ne consegue è: la vita di chi attraversa il mare del quotidiano senza toni urlati o fatti epici è invisibile, insignificante); 2) al lettore interessano solo storie umane che traboccano di eventi esagerati e toni cruenti (l’implicito velenoso è: puoi essere interessato all’altro solo quando accadono terromoti e tsunami umani).

Fantasma

Dietro il libro del principe Harry c’è un ghostwriter d’eccezione, il premio Pulitzer J. R. Moehringer, già autore della biografia Open del tennista Andre Agassi. Per chi è interessato alla sua storia di vocazione alla scrittura c’è il libro Il bar delle grandi speranze, da cui è stato tratto anche un bel film omonimo con un grande Ben Haffleck.

Ed è pensando a lui che mi sono posta qualche domanda, visto che – a milioni di anni luce dalla sua esperienza e fama – sono impegnata in un lavoro di scrittura simile. Dare voce alla storia di qualcun altro. In effetti, non c’è via migliore per mettere a tema la conoscenza di sé. Trasudiamo di gente che vuole avere l’ultima parola su di sé, ma – in realtà – quando nella vita di tutti i giorni ci accade qualcosa di importante, nel bene o nel male, abbiamo bisogno di raccontarlo a qualcuno. E’ una mossa profondamente umana, di vera esistenza. Capisco meglio me stesso, quando mi racconto a un amico e mi lascio guardare dai suoi occhi.

La conoscenza di sé non è mai chiusa, resterà aperta fino all’ultimo istante di vita. Eppure volerci capire da soli, scegliendo di essere narratori e protagonisti delle nostre vicende, è il modo peggiore per illuminare la complessità irrisolta che siamo. Non abbiamo bisogno di uno specchio, ma di immergerci in un elemento estraneo e sentirne l’urto come quando entriamo in acqua al mare. Il vero ghostwriter è un alleato essenziale per tutti e ha, appunto, l’aspetto e la voce dell’amico, del collega, del genitore a cui affidiamo pezzi della nostra storia e ne riceviamo un punto di vista diverso dal riflesso dello specchio.

E la parte più bella della parola ghostwriter è proprio ghost, fantasma. Ma va interpretata in modo coraggioso. Non è un burattinaio invisibile che pianifica e ordisce una trama, non è uno che mima la voce di un altro cercando di accentuare le parti più vendibili e di successo. È uno che s’immedesima al punto di sparire.

Photo by Pedro Figueras on Pexels.com

Evidenziatori e matite

Quando faccio un’intervista c’è sempre un momento iniziale, più o meno lungo, di enorme estraneità. La persona che ascolto mi parla, e io trascrivo, registro. Eppure non capisco. Il processo di immedesimazione è proprio come sprofondare in un pozzo. Lasciarsi cadere nell’altro. Il buio è il tono dominate. Qualcosa comincia a schiarirsi dopo molti ascolti delle registrazioni, dopo tantissime riletture delle sbobinature. Ho imparato ad amare questa fase incognita, che mi allontana dal nemico numero 1: presumere di aver capito l’altro e trattarlo con le etichette che vorrei applicargli, affinché la storia funzioni.

Temo che proprio questo sia accaduto nel caso del principe Harry, una vera gallina editoriale dalle uova d’oro. Come prodotto editoriale sarà stato soppesato ogni elemento in grado di vendere, di suscitare un polverone mediatico. Lo scopo non è più ‘qualcuno che ha bisogno di raccontare la sua storia’ e di farlo affidandosi a una voce diversa dalla propria, egocentrata. Il vero fantasma, qui, non è il ghostwriter, ma il protagonista, della cui vera vulnerabilità e anima non importa nulla né alle case editrici né al pubblico.

La strategia è chiara, ed è quella dell’evidenziatore: lì dove i fatti si fanno scabrosi, le relazioni sono complesse e ferite, raccontale in modo urlato, esagera coi colori accesi e parole come coltelli. Scandalo. Mi rendo conto che è una tentazione fortissima. Perché noi siamo pervasi dall’errore di prestare attenzione solo agli urli, che sia interessante solo l’esagerato.

L’immedesimazione vera procede tenendo in mano la matita, spinge delicatamente sul foglio e a fine lavoro si cancella. Quello che è richiesto alla fatica dell’intervistatore o del ghostwriter è la pazienza di mettersi in ascolto di una voce lontanissima e che sussurra piano. La parte più vera di ciascuno è in certi pezzi di frasi appena accennate, nella scelta di certe parole che si ripetono, che sono segnali d’allarme silenziosi. Allora, la matita del vero ghostwriter comincia a sottolineare e ad appuntarsi domande. Si mette su una strada che non può aver stabilito a priori ma che si svela pian piano.

Altrobiografie

Chi è uno scrittore? – resta una domanda molto aperta e fraintesa oggi. Sono tanti quelli a cui basta una pubblicazione per appuntarsi la medaglia di “scrittore” nei propri profili, ne resto basita e interdetta. La strana aura che avvolge il contesto letterario è un abbaglio invalidante, un egocentrismo blaterante. Tanto basta per allertare il mio cane da guardia interiore verso chi vuole entrare nel novero di una categoria che attualmente è vacante dell’essenziale … quell’intuizione di Eliot per cui più c’è una voce autentica, meno la personalità è in mostra.

La poesia non è un libero movimento dell’emozione, ma una fuga dall’emozione; non è l’espressione della personalità, ma la fuga dalla personalità.

T. S. Eliot, Tradizione e talento individuale.

Al di là di questa parentesi molto facinorosa da parte mia, il vero punto dolente è pretendere di essere scrittori di se stessi. E questo capita al di là del pubblicare libri o no. Quando la narrazione della nostra vita dipende solo dalle nostre parole, ecco il pericolo in agguato. L’unica nota interessante in questo putiferio che sta suscitando il libro del principe Harry è la scelta del ghostwriter. Dovrebbe essere sempre così, a patto che il ghostwriter non ragioni in termini di prodotto ma di mistero.

Chi sono? è una domanda che si spalanca davvero quando la si affida a un altro e diventa: chi sei? Per addentrarsi nel mistero di un’anima occorre essere almeno in due. Uno che racconta e uno che ascolta. E il guadagno è per entrambi moltiplicato. Perché anche chi ascolta, e poi racconta una storia non sua, indaga a fondo su di sé immergendosi nel mistero dell’altro.

Questa è l’unica alternativa alla logica vorace degli scandali, di storie messe in pasto al pubblico e scritte masticando solo i bocconi più succulenti. Ogni storia merita un racconto, ogni vita è esemplare anche quando non fa il benché minimo rumore. E ciascuno, in fondo, non desidera parlare di sé all’infinito con l’altoparlante. I social hanno nutrito quest’illusione errata. Lasciati soli a noi stessi ci riduciamo a fantasmi. Quando ci esponiamo davvero, lo facciamo col desiderio di affidare la matassa del nostro vissuto a mani diverse dalle nostre. E non per avere soluzioni, ma per accorgerci della nostra presenza come se fosse un ospite appena arrivato da accogliere.

Photo by Andrea Piacquadio on Pexels.com

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