L’assassino parla in terza persona

“Egli” nel braccio della morte

Ho visto un documentario su Ted Bundy, uno dei più famigerati serial killers della storia americana. Dopo aver sparso sangue e terrore in lungo e in largo per gli Stati Uniti negli anni ’70, fu processato e condannato a morte. Durante la sua permanenza nel braccio della morte, Bundy acconsentì a raccontare “la sua versione dei fatti” a un giornalista. Ne sarebbe uscita una pubblicazione che – neanche a dirlo – ingolosiva gli editori.

Il giornalista racconta di aver fatto visita a Bundy in carcere, avere ascoltato per infinite ore i suoi deliri da patologico narcisista ed essere arrivato a un livello massimo di prostrazione. Il killer si raccontava a modo suo, parlava in prima persona inventandosi il suo passato e presente: una vita idillica di cui era il protagonista intelligente, amato, gratificato in una rete di rapporti familiari e affettivi perfetti, sarebbe dovuto diventare un grande avvocato di cui l’intero paese sarebbe stato orgoglioso. Nessun fiato sul suo lato oscuro, nessuna sillaba sulle decine e decine di omicidi e torture inflitti a giovani studentesse universitarie.

Che fare? Sfinito alla fine dell’ennesimo inconcludente colloquio, il giornalista si ritrovò stanco e demotivato nel motel dove alloggiava. E’ tipico della frustrazione più dolorosa aprire una crepa di intuizione. Così accadde. Il giornalista intuì in quel momento di estrema delusione che, se voleva ottenere qualcosa, doveva tentare un’ipotesi azzardata: dare a Bundy la possibilità di parlare in terza persona, offrirgli una maschera per poter confessare tutto senza dire “io”.

Così fu. Quando il giornalista lusingò l’ego di Bundy suggerendogli che solo un uomo intelligente come lui avrebbe potuto fare meglio della polizia nel descrivere che specie di persona avesse commesso gli omicidi di cui era accusato, Bundy afferrò il registratore e parlò – di tutto – come un fiume in piena. Disse tutto di sé trattandosi come un estraneo.

Il confessionale sulla pubblica piazza

E’ esagerato chiedere una licenza poetica a Flaubert e dire “Ted Bundy sono io”? Lo è. Ma non è azzardato rendersi conto di quanto la sua premura narrativa egocentrica del killer sia lo specchio perfetto del nostro modo di parlare. Questo nostro tempo adora, venera, favorisce e stimola le narrazioni in prima persona.

Siamone consapevoli: ogni strumento di comunicazione ci vuole inchiodati a fissarci alla specchio. E’ una prigione in cui crediamo di essere liberi, soddisfatti della nostra esposizione, gratificati dalla condivisione della nostra presenza. Ebbene, siamo tutto tranne che presenti. Siamo nel braccio della morte.

Ogni genere di social network non è altro che un trampolino che spinge al salto: racconta la tua storia. L’alone morboso dell’era degli influencer ha messo sull’altare il racconto in prima persona. Metti la tua foto, fotografa il piatto che stai mangiando, scrivi un post di sfogo sull’incidente che hai avuto oggi, fai un reel sulla tua corsa quotidiana nel parco, fai un tiktok mentre canti la tua canzone preferita. Tutto questo suona – sinistramente – come un diario sincero e in tempo reale di chi siamo. La voce è sempre: io, io, io, io.

Siamo come Bundy, in carcere a pettinare e blandire il nostro ego. La confessione, in effetti, è l’urgenza più profonda che è scritta nella nostra anima. Ma la versione smembrata, digerita e ricomposta in forma vanagloriosa dall’età contemporanea è quella del confessionale del Grande Fratello. Che non è altro che superbia a livelli colossali: parlo io e solo io, davanti a una telecamera che mette la mia storia a disposizione di un pubblico. Abbiamo un estremo bisogno di raccontare la nostra storia, come la vediamo e sentiamo noi. Abbiamo bisogno di confessarci. Di dire e mostrare tutto, usando come regista e protagonista sempre lo stesso personaggio: IO.

Anche Facebook, Instagram, Tiktok, Youtube sono prevalentemente usati in questa modalità egocentrata. Come Bundy che racconta “la sua versione dei fatti” al giornalista. E quanti libri sono frutto del medesimo punto di vista? Non sono autobiografie, sono la voglia sfrenata di essere autobiografie … anche se hanno il nome ammiccante di memories. Magari non sono scritti male ma non c’è niente di vero. Il libro sconfinato dell’universo scompare, perché l’unico soggetto che si riesce a inquadrare è: io racconto me.

Il kiwi

Penso che una delle forme più alte di confessioni siano quelle che ha fatto Verga scrivendo “Nedda” o “Rosso Malpelo”. Verismo, lo definiamo. Sì, è un racconto asciutto in terza persona. La strada migliore per una conoscenza intima di sé.

Intendiamoci su cosa è “il vero”. Pronunciare una frase che riteniamo fedele alla nostra esperienza non è dire la verità, è dire ad alta voce la nostra impressione. Dare per scontato che “quello che dico a voce alta ed è spontaneo ed esprime il mio stato d’animo” sia vero è un errore madornale che genera violenza su di noi e sugli altri.

No. Non è vero. Il vero è altro è altrove ed è prezioso come acqua nel deserto. I nostri discorsi declinati alla prima persona sono brodaglia, liquidume infangato. Il kiwi è un esempio che aiuta, perché è un frutto la cui buccia è molto diversa e spenta rispetto alla polpa.

Photo by Maria Victoria Portelles on Pexels.com

C’è, piantato nel nostro intimo, qualcosa di simile alla verdezza splendente del kiwi. Viriditas, direbbe Ildegarda. Per averne un assaggio, bisogna togliere la buccia … quello spento velo marroncino che copre lo splendore gustoso della polpa. Tutti i nostri discorsi egocentrati non sono altro che quella buccia marroncina, non assomigliano neanche lontanamente al tesoro prezioso che c’è sotto. Per togliere questa scorza è necessario un esercizio di pudore. Oscar Wilde lo disse così:

Datemi una maschera e vi dirò la verità

“L’io è la cosa più distante dell’universo” – scrisse Chesterton. E quando usiamo la prima persona siamo lontani anni luce da quella che è la zona più sincera, profonda, ignota di noi. Per accarezzare da vicino qualcosa che assomiglia al vero di noi, alla verdezza del kiwi, bisogna dimenticarsi di dire “io”. Bisogna essere consapevoli che non sappiamo afferrare la nostra storia, non abbiamo tracciato noi gli assi cartesiani, non sappiamo farne un resoconto. Siamo i meno titolati a ritenere di aver qualcosa da dire su noi stessi. Ma possiamo metterci in attesa, aspettare di udire il sussurro della nostra voce più intima come si aspetta un ospite … si pulisce la camera, si predispone ogni cosa, lenzuoli puliti e comodino spolverato.

Vivere la vita in terza persona significa dire: ti aspetto. L’io è attesa che il nostro mistero esca pian piano dalla tana, ci dia indizi.

Osservare la realtà che abbiamo attorno, immedesimarsi nelle persone che ci affiancano nella nostra storia quotidiana, concentrare l’attenzione su un racconto di vita che ci escluda dall’inquadratura, ecco la via per avvicinarci a questo mistero che siamo e parla, ma lo fa piano e lento e sottovoce e per sillabe e senza frasi concluse.

Più ci togliamo dal discorso, più affiorerà qualcosa di non calcolato eppure più familiare di tutti i nostri diari virtuali di selfie e sfoghi.

Scrivi come se non parlassi mai con te stesso e ti evitassi” – Wisława Szymborska

Dobbiamo una cortesia alla nostra anima, trattarla come uno scrigno semichiuso a cui avvicinarsi in punta di piedi. L’alleato migliore per aprire lo scrigno è la realtà (non il flusso di coscienza). Ci è offerto un bacino infinito di risorse da guardare e di cui prendere nota. Possiamo serenamente accantonare la smania di rinchiudere dentro la rete da pesca del “io ho fatto, adesso ti racconto, guarda cosa ho scoperto”. Possiamo vivere la nostra presenza come l’ospitalità di una camera pulita e pronta ad accogliere qualcuno. Chi sia, non so. Lo aspetto.

Ecco cos’è la terza persona. Più spalanco la finestra sull’esterno più aria entra nella mia stanza. Dare voce all’altro di cui è pieno l’universo è la via direttissima e infinita per tornare a casa, a qualcosa di opposto a una posa autocostruita e celebrata.

Photo by Mike B on Pexels.com

2 commenti

    • Sì, hai proprio ragione… effettivamente, al fondo, è un grande viaggio in salita verso l’umiltà.

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...